AIL Salerno al Giffoni Film Festival per la première di “Noi anni luce”

Il 23 luglio 2023 al Giffoni Film Festival si è tenuta la proiezione in anteprima di “Noi anni luce”, il film di Tiziano Russo prodotto da Notorious Pictures e che ha il patrocinio di AIL.

La pellicola parla di due giovani ragazzi che affrontano una leucemia, un’occasione importante per sensibilizzare i ragazzi al tema della donazione di sangue e midollo.

Alla première erano ospiti il Presidente AIL Giuseppe Toro, il Presidente AIL Salerno Elvira Tulimieri e Autilia, una giovane ex paziente che ha parlato ai ragazzi ospiti dell’anteprima. 

Riportiamo il suo discorso.

Ciao ragazzi, mi chiamo Autilia, ho 28 anni esono di Torre del Greco; tuttavia, per un anno esatto (dal 15 aprile 2019 al 15 aprile 2020) ho vissuto a Salerno. 

La mia casa è stata l’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi D’Aragona: bastava bussare al reparto di ematologia e chiedere di me (anche perché, chiamandomi Autilia, non c’era possibilità di equivoci).

 

Dico che il reparto è stata la mia casa, perché lì ho avuto la fortuna di conoscere tante persone meravigliose, medici, infermieri e operatori sanitari ed è grazie a loro e alla ricerca se oggi sono guarita e sono qui.

 

Hanno conquistato la mia fiducia sin da subito. E parlo di fiducia perché quando entri in un reparto di ematologia, quando ti viene diagnosticata una leucemia, vieni catapultatoin un universo parallelo.

Il giorno prima sei Auti, studentessa di architettura che vive di giornate in facoltà con i colleghi, nottate a montare e smontare plastici, ore davanti al pc o piegata sui libri a sottolineare e apprendere in due giorni il contenuto di 421 pagine e la cui unica preoccupazione è riuscire a ritagliarsi il tempo per uscire con le amiche tra un esame e l’altro. 

Quello dopo sei “Autilia, senti, il nome preciso è leucemia linfoblastica acuta delle cellule T e lunedì devi mettere il PIC, così ti ricoveri e inizi subito le chemio”.

 

Era un venerdì, avevo compiuto da pochi giorni 24 anni ed erano arrivati i risultati dell’esame istologico da cui dipendeva tutto: io ero seduta davanti alla scrivania del Prof. Selleri (il primario del reparto di ematologia). 

Non mi disperai, non piansi. 

Prendevo appunti sulle note del cellulare di ogni parola come se stessi seguendo una lezione e quelle poche e preziose informazioni erano tutto quello che avevo per prepararmi al meglio per quell’esame. Uno dei tanti, nulla più, nulla meno degli altri che già avevo sostenuto e degli altri che avrei dovuto sostenere. 

La mia unica preoccupazione era che quella “scocciatura” finisse in fretta per poter tornare a studiare davvero.

Un contrattempo, un inciampo sincopato sul mio percorso che, più che preoccuparmi, mi infastidiva. Non avevo tempo da perdere dietro cure, ospedali e tutto il resto; piegai piccola piccola la disperazione, la riposi in un angolino remoto della mia mente e cercai di organizzare e controllare tutto in maniera razionale, come avevo sempre fatto.

Ben presto, però, dovetti fare i conticon la realtà: non potevo controllare proprio niente. La malattia decideva ogni cosa, il ritmo cadenzato delle chemio che scendevano goccia a goccia dalla flebo scandiva la mia giornata. Non avevo più la forza di fare anche le cose più stupide: più mi sforzavo di mantenere una routine, di leggere, di studiare addirittura, più mi rendevo conto di non riuscirci… mi arrabbiavo.

 

La maggior parte dei cicli di chemio li ho affrontati da sola, in una stanza sterile di 12 mq, dove potevano entrare solo medici e infermieri, indossando tute, o camici lunghi fino ai piedi,mascherina e guanti. Non potevano toccarmi, a meno che non fosse strettamente necessario, dal momento che il mio sistema immunitario era praticamente azzerato; pur vedendoli tutti i giorni, conoscevo solo i loro occhi e la loro voce camuffata dalla mascherina.

 

La finestra della mia stanza era chiusa da un vetro e affacciava su un corridoio stretto: da lì, scorgevo i miei genitori che si alternavano un’ora al giorno per vedermi.Durante le giornate fatte di flebo, pillole e terapie, quando stavo male, programmavo cose da fare non appena fossi stata meglio: buttavo giù lunghi elenchi di cose da imparare, posti da visitare, pietanze da cucinare e mangiare per dimenticare i lunghi digiuni e le abominevoli creazioni della cucina ospedaliera.

 

Avevo iniziato quel percorso decisa a concluderlo il prima possibile e tornare alla mia vita, a quello che ero prima di iniziarlo; mi sono però ritrovata a volerne uscire diversa, a volermi migliorare, a non accettare più compromessi se in gioco c’era la mia felicità, a fregarmene di più, divertirmi di più, urlare di più, avendo speso una vita intera a modulare il tono della voce per sembrare razionale e affidabile. Quando sei lì dentro, rimpiangi di non aver fatto tante cose.

Nei brevi periodi in cui la malattia e le reazioni alle chemio mordevano di meno e mi sentivo meglio,leggevo, approfittavo delle notti insonni per divorare film e serie TV, spostavo i quattro mobili della stanza per riconfigurare i miei spazi, mi ero addirittura fatta portare la chitarra e, nella speranza la stanza fosse insonorizzata, suonavo e cantavo.

Ho trascorso talmente tanto tempo in reparto che, come dicevo scherzando ad uno dei miei fratelli di reparto, “facevo ormai parte dell’arredamento” anch’io.

Dei volti degli infermieri e dei medici non conoscevo più solo gli occhi, degli altri pazienti non più soltanto il nome, ma anche un po’ le storie e chiedevo di loro come se li conoscessi, pur non avendoli mai visti in certi casi. Lì dentro si diventa una famiglia, ognuno il suo percorso, le sue sofferenze e i suoi momenti no, ma sempre pronti a spendere una parola di conforto, regalare un sorriso o provare a far sentire meno solo l’altro, anche con un semplice sguardo.

 

Ogni singolo componente del personale medico e non, è un professionista, non solo nel curare e nell’accudire, ma nell’amare il prossimo. E non sempre è facile, credetemi.Mi conoscevano bene: erano così attenti ad ogni dettaglio, interpretavano così bene ogni sguardo e atteggiamento, che non potevo nascondergli niente; nella stanza sterile avevo la telecamera puntata addosso h24, qualora occorresse un intervento esterno: sembrava un po’ di stare al Grande Fratello… e non mi sentivo mai sola ed ero sommersa dalle premure di ognuno di loro. 

 

Ecco ragazzi, io, lì dentro, mi sentivo come Troisi in “Pensavo fosse amore… invece era un calesse”: non mi lasciavano soffrire in pace, non mi facevanosoffrire bene, non mi riuscivo a concentrare, mi distraevano dalla mia sofferenza. Con loro lì, soffrivo male, soffrivo poco, non c’era quella bella sofferenza che dici “Aah, bella, ho sofferto bene”.

Insomma, sono stata proprio fortunata ad incontrarli sul mio percorso… certo, se nel letto accanto, invece che della vecchietta che russava, avessi incontrato Rocco Fasano, sarei stata anche più contenta.

Ora che vi ho raccontato un po’ della mia esperienza, potete capire quanto sia importante il ruolo dei medici e della ricerca, quindi l’AIL, per il supporto quotidiano, tanto al paziente quanto ai familiari. L’AIL porta avanti un lavoro enorme di assistenzasensibilizzazione e ricerca, operando in maniera capillare su tutto il territorio nazionale, tramite volontari. Le iniziative si rivolgono ai pazienti anche dopo il percorso terapeutico e AIL Salerno in particolare, tra le varie attività, ha avviato da poco un progetto che coinvolge i giovani, di cui faccio parte, che abbiamo chiamato “Gli artigiani delle idee”. Lo scopo è partire dalle nostre esperienze di malattia per trasformarle in un’opportunità: migliorare, per quanto possibile, la quotidianità delle persone attualmente ancora in cura.

Oltre tutto questo mondo di “addetti ai lavori”, che ruota intorno alle malattie del sangue, un ruolo chiave è quello di tutti noi, di tutti voi. Per ogni malato di leucemia l’unica speranza, oltre la ricerca, è che ci siano persone disposte a donare il sangue e il midollo. Molti dei percorsi terapeutici, infatti, si concludono con un trapianto, ma non sempre il malato dispone di un familiare compatibile che possa fungere da donatore. Chi si iscrive al registro compie un atto di estrema generosità. Potreste salvare la vita di una persona che non conoscete e non conoscerete mai, una persona che vi sarà per sempre grata, una persona come me.

 

Ringrazio l’AIL per tutto quello che fa ogni giorno, per avermi dato la possibilità di essere qui oggi. E voglio ringraziare il Giffoni Film Festival per aver dato voce, tramite la mia storia, a tutti coloro che hanno combattuto e combattono una malattia del sangue. Anche chi non ce l’ha fatta. Non siamo guerrieri, come spesso ci sentiamo chiamare, siamo persone comuni, che hanno dovuto mettere in pausa la propria vita e la realizzazione dei propri sogni… mai più sogni spezzati!